Anche il settore automobilistico è alle prese con la questione dei diritti umani. La necessità di materie prime per le batterie dei veicoli elettrici, infatti, viene soddisfatta molto spesso in Paesi ove non si presta eccessiva attenzione a questioni come lo sfruttamento intensivo dei lavoratori o il danno ambientale collegato all’estrazione di minerali come litio, nichel e cobalto. Un problema che ha spinto Amnesty International a compilare un rapporto molto duro nei confronti delle case automobilistiche, dal quale molte di esse escono con un’immagine pubblica ammaccata.
Com’è noto, BYD produce più EV di chiunque altro, a un prezzo inferiore a quello che la maggior parte delle case automobilistiche occidentali è in grado di conseguire. Per tutto ciò, però, c’è un costo, che viene pagato dai lavoratori nelle sue catene di fornitura. Ad affermarlo è un nuovo rapporto pubblicato da Amnesty International che indaga sui rischi per i diritti umani nel settore delle auto elettriche.
Lo studio, intitolato “Recharge for Rights” ha infatti stilato una vera e propria graduatoria includendo tredici case automobilistiche. Nel compilarla ha tenuto conto del modo in cui affrontano i rischi per i diritti umani nelle loro catene di fornitura minerarie. Proprio BYD è arrivata ultima, con un punteggio di 11 su 90 punti potenziali, precedendo di soli due Mitsubishi.
Male anche Hyundai (21), Geely e Nissan (22 ciascuna), mentre è andata meglio e Tesla (49) e Mercedes (51) che, comunque, non rientrano nella parte dei buoni. Per poterlo fare, infatti, avrebbero dovuto conseguire almeno 68 punti, considerati il minimo per dimostrare un impegno adeguato in tema di diritti umani.
Il problema delle catene di fornitura
Il tema dei diritti umani nell’automotive globale, deriva dal fatto che sebbene i veicoli elettrici non producano emissioni allo scarico, le loro batterie necessitano di enormi quantità di minerali come litio, nichel e cobalto. Se già si conoscevano i danni ambientali collegati all’estrazione del litio, Amnesty International ha voluto focalizzarsi sugli abusi che caratterizzano l’industria mineraria del cobalto. Evidenti soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, cui va ascritto il 25% della fornitura mondiale. Nel Paese africano, infatti, a estrarre il minerale sono i bambini.
Occorre sottolineare un fatto: le prime posizioni di questa classifica sono tutte occupate da produttori asiatici. Il fatto è che BYD, Geely, Hyundai, Nissan e Mitsubishi hanno in pratica rifiutato di collaborare all’indagine. Un atteggiamento che potrebbe nascondere il fastidio per la trasparenza, più che reali problemi, ma comunque sanzionato dalla graduatoria finale. Un atteggiamento del resto condiviso da General Motors, mentre i marchi occidentali hanno collaborato alla mappatura della propria supply chain.
Occorre inoltre ricordare che in Europa, nel corso dell’ultima estate, è entrata in vigore una nuova direttiva sulla due diligence in tema di sostenibilità ambientale. Chi la viola va incontro a multe salate e restrizioni all’accesso al mercato, per cui sembra abbastanza improbabile che le aziende possano rifornirsi senza prendere le proprie precauzioni sotto questo particolare punto di vista. E per non violarla, devono appunto dimostrare la provenienza delle batterie, senza la quale non possono accedere ai crediti EV. Magari nelle prossime settimane se ne potrà sapere di più, al riguardo.
C’è ancora molto da fare
A commentare il rapporto per Amnesy International è stata Agnès Callamard. Queste le sue dichiarazioni, al proposito: “Mentre la transizione globale verso i veicoli elettrici prende piede, stimola la competizione globale e consente enormi profitti, Amnesty International chiede a tutte le case automobilistiche di migliorare i loro sforzi di due diligence sui diritti umani e di allinearli agli standard internazionali sui diritti umani”.
Per poi aggiungere: “Coloro che sono rimasti indietro devono impegnarsi di più e più velocemente per dimostrare che i diritti umani non sono solo una frase fatta, ma un problema che prendono sul serio. È tempo di cambiare marcia e garantire che i veicoli elettrici non lascino dietro di sé un’eredità di violazioni dei diritti umani: al contrario, l’industria deve guidare un futuro energetico giusto che non lasci indietro nessuno”.