Automotive: le case europee chiudono stabilimenti, le cinesi li aprono. Sono proprio gli incentivi, il problema?

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I dati reali smentiscono la narrazione dell’UE e fanno capire i motivi della superiorità cinese
Auto elettrica FAW

“Uno spettro si aggira per l’Europa”: il celebre incipit del Manifesto del Partito Comunista, il saggio scritto da Karl Marx e Friedrich Engels nel lontano 1848 potrebbe essere riadattato ai nostri giorni. Sostituendo al comunismo del testo originale le auto elettriche cinesi. Anche se forse, a livello ideologico cambierebbe poco.

Un vero e proprio spettro, quello rappresentato dai veicoli ad emissioni zero di Pechino, che però sta producendo un paradosso di non poco conto, in Europa. Mentre infatti le case europee chiudono stabilimenti, quelle del Dragone li aprono. E nel farlo, scoperchiano un dato di fatto che era del resto stato enunciato in un rapporto pubblicato da Bloomberg alla fine del 2023. Ovvero che il dominio cinese nel settore delle auto elettriche non è dovuto alle sovvenzioni statali.

Automotive: gli incentivi di Pechino sono il problema? Assolutamente no!

Le notizie provenienti dai quartieri generali di molte case europee dell’automotive (e dell’indotto), assomigliano ormai a un bollettino di guerra. Volkswagen, con le sue minacce di licenziamenti di massa, rappresenta soltanto la classica cima dell’iceberg. Basta del resto allargare la visione a Stellantis, ma non solo, per capire cosa sta accadendo.

Auto elettriche cinesi

E mentre le case europee chiudono, quelle cinesi sembrano intenzionate a dirigersi in massa verso il vecchio continente, per aprire nuovi siti produttivi. Un trend il quale sembra un paradosso, ma che in realtà va a distruggere una narrazione, quella che vorrebbe i costruttori di auto elettriche cinesi avvantaggiati dagli incentivi. Se così fosse, infatti, BYD e le sue sorelle se ne resterebbero in Cina a lucrare sui contributi statali, senza dannarsi eccessivamente l’anima.

Al contrario, continuano a crescere d’intensità le voci relative al possibile sbarco di aziende orientali lungo il territorio europeo. Favorite anche dal favore palesato da alcuni governi, ad esempio quello spagnolo. Non a caso il primo ministro Pedro Sanchez sta cercando di adoperarsi da pontiere nella querelle tra Bruxelles e Pechino. In cui, peraltro, a rimetterci potrebbero essere proprio gli europei, con la Cina già pronta a misure di ritorsione. Rese ancora più temibili dal fatto che si tratta del più grande mercato del mondo. Una esclusione dal quale potrebbe infine equivalere ad una condanna. Lo hanno ben compreso i tedeschi, anche loro impegnati a mitigare i furori ideologici dell’UE.

Il dominio della Cina non deriva dagli incentivi, ma dalla capacità di fare sistema: lo dice Bloomberg

Per capire come il problema non siano gli incentivi, basterebbe rimettere mano ad un rapporto pubblicato da Bloomberg sul finire dello scorso anno. Al suo interno era contenuta una tesi di fondo ben precisa: la sfida alla Cina nel ciclo produttivo delle auto elettriche è un’impresa superiore alle forze delle case statunitensi ed europee. Almeno per il momento.

La seconda superpotenza economica globale, che secondo le previsioni è avviata nel medio termine a diventare la prima, possiede una lunga serie di fattori che la rendono praticamente imbattibile. A partire dalla posizione di forza, tale da sfiorare il monopolio, nella produzione delle batterie. Tanto da rendere i produttori occidentali dipendenti in larga misura dal gigante asiatico.

Linea assemblaggio BYD

Le aziende cinesi impegnate nella produzione di batterie sono al momento in grado di controllare il mercato per una quota intorno all’80%. A rendere possibile il dato è la presenza di una vera e propria catena dall’estrazione alla lavorazione. Bloomberg cita a sostegno della sua tesi anche i dati rilasciati dall’International Energy Agency, in base ai quali le compagnie cinesi sono al momento in grado di raffinare più della metà del litio mondiale, due terzi del cobalto, più del 70% della grafite e circa un terzo del nickel.

Altro dato chiave per capire il pronostico di Bloomberg è poi rappresentato dal prezzo medio di una batteria cinese, 127 dollari per KW/h. I prezzi praticati in Nordamerica e Europa sono più alti rispettivamente del 24 e 33%, stando ai dati forniti da BNEF. Quindi, se i brand occidentali volessero colmare il divario esistente, dovrebbero investire nella costruzione di siti produttivi concorrenziali.

Sempre secondo BNEF, però, costruirne uno in Occidente comporterebbe investimenti pari a 865 milioni di dollari. Una enormità se raffrontati ai 650 che bastano per vararne uno in Cina. Dati tali da rendere improponibile la sfida e far capire che non sono gli incentivi il problema delle imprese automobilistiche europee.

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