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Le 3 auto da corsa più belle di Ferrari, Lancia, Maserati

Il nostro paese è al vertice per l’arte automobilistica. Ecco alcune eccellenze classiche.

Lancia Stratos Auto

L’Italia è nota nel mondo anche per le sue auto da sogno e per la raffinatezza creativa e ingegneristica di cui è capace. Difficile stilare delle liste d’eccellenza, quando si parte da livelli così alti, ma oggi mi sono concesso l’ardimento di fare un elenco delle auto da corsa più belle del nostro paese.

Per non fare un trattato monotematico, dedicato al “cavallino rampante“, che avrebbe primeggiato in modo facile, ho allargato il campo, scegliendo tre vetture di altrettanti marchi, tutti rigorosamente Made in Italy: Ferrari, Lancia e Maserati.

So che mancano troppi gioielli, ma dovendone scegliere tre, ne ho sacrificati molti altri che meritavano la loro presenza nella top list. Qualora la cosa vi interessasse, sarei lieto se mi seguiste in questo cammino. Vi anticipo che la regina del gruppo è la 330 P4, anche se l’ordine sparso potrebbe trarvi in inganno.

Lancia Stratos

La Lancia Stratos è un’auto da gara che ha lasciato il segno nella storia del marchio torinese. Questa vettura deve il suo fascino iconico alla miscela fra gloria sportiva, linee da astronave e motore Ferrari. La spinta, infatti, fa capo al 6 cilindri da 2.4 litri della Dino 246. Ne derivano performance straordinarie, unite a musicalità meccaniche da mille e una notte. Questo cuore, nella versione da corsa, suona come un violino, accordato con grande maestria dagli uomini del “cavallino rampante”. Anche la trasmissione porta la firma della casa di Maranello.

A custodire questo gioiello dell’ingegneria italiana ci pensa una carrozzeria avveniristica, che si distingue da tutte le altre. Non sarà la vettura adatta per presentarsi alla Prima della Scala, ma la Lancia Stratos è una vera opera d’arte. Il merito del suggestivo design è di Marcello Gandini, che ha tracciato le sue linee per Bertone.

L’impressione è quella di trovarsi al cospetto di un cuneo, pronto a fendere l’aria, per agguantare il gradino più alto del podio. Cosa che, nella sua carriera sportiva, avvenne con grande frequenza. Basti dire che nel 1974, nel 1975 e nel 1976 questa vettura mise in cassa il titolo costruttori del Campionato del Mondo Rally. A Sandro Munari, su Lancia Stratos, andò il titolo piloti nel 1977. Stiamo parlando di risultati incredibili, messi a segno grazie a un pacchetto tecnico d’eccellenza.

Un’auto nata sotto una buona stella

Se il motore era al top, non meno incisive risultavano le doti dinamiche della vettura, che sapeva destreggiarsi con grande agilità sui sentieri agonistici. Ciò era reso possibile dal particolare bilanciamento e dal telaio monoscocca centrale in lega leggera, opportunamente rinforzato, che garantiva una grande robustezza torsionale e flessionale. Alla cellula di sicurezza in acciaio erano saldati due telaietti supplementari, in traliccio di tubi, che fungevano da supporto per l’unità propulsiva e le sospensioni.

I risultati valgono più di mille parole per testimoniare la qualità del prodotto di cui ci stiamo occupando. A suo favore giocavano anche il passo corto e le carreggiate larghe che ne facevano un’arma agile e maneggevole nelle mani di chi sapeva interpretarne il carattere estremo. Il compito di rallentarne la foga era affidato a quattro freni a disco di matrice racing. Non era facile la loro missione, perché il ritmo era molto incisivo. Del resto, la potenza del cuore, nella versione da gara, ballava da 280 a 320 cavalli. In quegli anni erano cifre di assoluto spessore, anche se oggi sono accessibili a modelli decisamente meno blasonati, ma non è certo la stessa cosa.

Nella versione stradale, questa vettura dal look futuristico sviluppava una potenza di 190 cavalli a 7000 giri al minuto e una coppia massima di 23 kgm a 4000 giri al minuto. Grazie al peso contenuto, le prestazioni erano di adeguato livello: accelerazione da 0 a 100 km/h in meno di 7 secondi, passaggio da 0 a 160 km/h in circa 18 secondi, velocità massima di 225 km/h. Il vero mito, però è la versione da gara.

Ferrari 330 P4

Questa non è un’auto: è una scultura da corsa, un capolavoro assoluto. Impossibile non esaltarsi al suo cospetto. Stiamo parlando di una delle “rosse” più belle di tutti i tempi. Solo la 250 GTO regge il confronto con lei, ma quella è una GT. La Ferrari 330 P4 è la sintesi migliore del mito del “cavallino rampante”. Sicuramente non esistono prototipi più belli di questo, con buona pace dei porschisti e della loro 917. Il suo vigore è della razza più nobile.

La vettura, prodotta in quattro esemplari, uno dei quali in configurazione spider, si giova della spinta di un motore V12 da 4 litri di cilindrata. È un cuore prezioso, curato da Franco Rocchi, che eroga 450 cavalli di potenza massima, a 8000 giri al minuto. Le melodie meccaniche effuse nell’aria sono fonte di un genuino godimento sensoriale: roba aulica, per orecchie che amano la migliore musica. Al ritmo delle sue note, i 792 chilogrammi di peso danzano come fuscelli. Si tratta di un propulsore con funzione portante, che segna l’esordio delle tre valvole per cilindro e di altri significativi affinamenti, nati dall’esperienza acquisita in Formula 1.

Nuova la trasmissione, interamente costruita in house. Il cambio, con frizione a dischi multipli, sfoggia ridotte dimensioni di ingombro e maggiore resistenza agli alti regimi di rotazione. La superba meccanica, che gode di ottima affidabilità, è custodita da una carrozzeria da sogno, che lascia estasiati per le sinuose curve e per le sublimi armonie dei volumi. Roba da meritare un posto al Louvre, accanto alla Gioconda. Perfettamente proporzionata nei sensuali tratti espressivi, la Ferrari 330 P4 si concede allo sguardo con un lessico di aulica specie.

Arte ed eccellenza meccanica

Valida l’architettura del telaio, con struttura a traliccio in tubi d’acciaio, abbinata ad elementi scatolati. Il degno supporto per il leggero abito in alluminio, plasmato da Piero Drogo. Bella ed efficiente, questa “rossa” non faticò a mettersi in mostra nell’universo sportivo. A lei andò il titolo Mondiale Marche del 1967, dove riuscì a piegare la resistenza dello squadrone Ford. Enzo Ferrari, così, pareggiò i conti con la casa americana, dopo lo smacco dell’anno precedente. Il risultato più emblematico della stagione fu la tripletta alla 24 Ore di Daytona del ’67, vinta da Bandini e Amon.

La scelta dell’allineamento sulla linea d’arrivo si rivelò vincente, fissandosi nella storia come una delle immagini più iconiche di sempre nell’ambito del motorsport. La foto delle “rosse” in parata conquistò le prime pagine di tutti i giornali. Ancora oggi emoziona. Nel prosieguo della combattuta stagione, la 330 P4 tenne alta la bandiera del “cavallino rampante”, consegnando alla Ferrari il tredicesimo titolo costruttori della specialità.

Il merito fu di un’auto leggendaria, entrata nel cuore degli appassionati, più di qualsiasi altra creatura da corsa. Le successive restrizioni regolamentari, che fissarono per i prototipi una cilindrata massima di tre litri, non resero possibile la partecipazione della 330 P4 al Campionato del 1968 che, per protesta, Ferrari non disputò. Altri tempi, altre persone, altre emozioni, altre pulsioni. Che epoca da sogno! Che auto incredibile!

Maserati 450 S

La Maserati 450 S è una stella che illumina la galassia del “tridente”. Questa vettura da corsa prese forma dal 1956 al 1958. In quegli anni era la barchetta più potente della sua categoria. Proverbiale l’affidabilità del motore che ne alimentava le danze. Mai nessun problema emerse in gara per questa unità propulsiva.

I ritiri, quando capitavano, erano dovuti ad altre componenti. Ogni volta che la Maserati 450 S giungeva al traguardo, il gradino più alto del podio era la posizione dove regolarmente finiva. Alla sua progettazione concorsero due tecnici di alto spessore: Vittorio Bellentani e Guido Taddeucci.

La spinta faceva capo a un V8 a corsa breve da 4478 centimetri cubi di cilindrata, dissetato da quattro carburatori Weber 45 IDM. Andava oltre quota 400 cavalli la potenza massima, su un peso di 790 chilogrammi, ma in alcune versioni successive, di più grossa cubatura, si ottennero risultati ancora più vigorosi. L’unità propulsiva era annegata in un telaio tubolare in acciaio, simile a quello della 300 S, cui la nuova nata era connessa da alcuni elementi di parentela. Il livello prestazionale, però, si spingeva molto più in alto, come testimonia in parte la velocità massima superiore ai 320 km/h.

Un “tridente” che cacciava i rivali

La grande energia veniva gestita dai piloti con l’ausilio di un cambio tipo ZF a cinque marce. La Maserati 450 S ha un look muscolare, che non fatica a toccare le giuste corde emotive di chi ne osserva i lineamenti. Come per tutte le auto da corsa, la bellezza non è stata ricercata, ma è il frutto (o felice effetto collaterale) di uno studio progettuale quasi totalmente orientato verso la migliore efficienza. In aeronautica si dice, talvolta, che ciò che funziona risulta anche gradevole allo sguardo. Questa connessione trova conferma nell’auto da corsa del “tridente” di cui ci stiamo occupando che, dalla sua, aveva un grande vigore.

Lo chassis portava la firma di Valerio Colotti, cui va anche il merito della riuscita interpretazione della carrozzeria. Quando raggiungeva il traguardo in gara, questa Sport lo faceva al primo posto. Se non accadeva, ciò era imputabile a qualche ritiro, ma non per colpa del motore, come abbiamo già messo in evidenza. Fra gli interpreti di questa muscolosa creatura della casa modenese ci furono piloti del calibro di Stirling Moss e Juan Manuel Fangio. Anche loro hanno concorso al suo prestigio storico e all’ingresso del modello nella leggenda.

Oggi questa vettura continua a conquistare gli occhi come una calamita ed a rapire il cuore con le sue rombanti melodie. Nelle rare occasioni in cui un esemplare si offre alla visione degli appassionati, l’effetto calamita è assicurato. Anche quando all’asta i collezionisti si trovano in presenza di una Maserati 450 S in vendita, i loro occhi cominciano a brillare e cominciano delle appassionanti gare al rialzo, che portano le cifre ben oltre la portata delle riserve finanziarie e patrimoniali dei comuni mortali, cui non resta che sognare un gioiello del genere.

 

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