Sulla figura di Sergio Marchionne si è scritto e si scrive ancora oggi molto. Poche persone possono però dire di averlo conosciuto come Tommaso Ebhardt, semplicemente “Tommi” per il compianto CEO, abituato a chiamarlo con ironia “il mio stalker”. “Marchionne era la mia ossessione”, racconta in un’intervista a Il Messaggero il 44enne, oggi direttore della sede di Milano di Bloomberg.
Tra Sergio e Tommi c’era un rapporto personale oltre che professionale. Pur mantenendo il “lei” fino all’ultimo si scambiavano messaggi su WhatsApp e Marchionne riponeva una tale fiducia da concedergli scoop su Fiat e consegnargli – buona parte almeno – della sua visione dell’Italia e del mondo. Nel libro “Sergio Marchionne” edito da Sperling&Kupfer, si leggono i grandi successi, ma anche i passi falsi e le grandi amarezze di un manager e di di un uomo come pochi ne passano su questo pianeta.
Sergio Marchionne: ossessione per il lavoro
Il caso Marchionne insegna “che il lavoro paga – spiega Ebhardt -. L’abnegazione e il lavoro duro, senza secondi fini e per il gusto di farlo bene è ciò che Marchionne ha incarnato per tutta la sua vita. Frequentandolo è la prima lezione che mi ha trasmesso. Per il lavoro provava un’ossessione, spinto da “ragioni che in lui formavano una miscela esplosiva: aveva una intelligenza straordinaria, era colto e aveva una feroce voglia di affermazione”.
La sua famiglia di origine ha rivestito “un ruolo enorme: una madre d’acciaio che andava a trovare spessissimo a Toronto e la morte della sorella, a trent’anni, considerato il vero genio della famiglia. Si sentiva in qualche modo obbligato a superarsi ogni giorno per dimostrare d’essere più bravo, prima della sorella, poi di tutti gli altri manager mondiali”.
Nei week-end convocava spesso riunioni fiume e certi giorni andava avanti a lavorare anche “per 20 ore”. In Italia raccoglie reazioni contrastanti, perché “sapeva essere spietato ed era irascibile. Spremeva le persone. Ha mandato a casa decine di manager sia di Fiat che di Chrysler”. Possedeva una fama estrema, atavica, che alternava però a slanci incredibili.
Nel 2014 annunciò l’acquisto del 100% di Chrysler, rovinando le vacanze di Ebhardt sulla neve: tornato in redazione, qualche giorno dopo lui fece un regalino alla figlia e gli scrisse una lettera di proprio pugno. Negli ultimi due anni era diventato più affettuoso, gli chiedeva dei figli. Anche i collaboratori si dicevano stupefatti. Lavorare con Marchionne è stata “un’esperienza unica, irripetibile, travolgente e totalizzante”.
Amore e amarezza per l’Italia
Richard Palmer, che Sergio Marchionne scovò in un meandro di Fiat nominandolo Cfo, cioè responsabile finanziario e quasi un numero due, gli ha raccontato di aver trascorso più sabati al Lingotto che con la sua famiglia, ma non poteva separarsene: era un capo dal quale si imparava di tutto.
Ebhardt si fece notare dall’alto dirigente perché entrambi arrivavano con netto anticipo in tutti gli eventi a cui partecipavano. All’Italia Marchionne voleva un bene immenso, ma la vedeva con gli occhi di un emigrato e considerava la classe dirigente lente e ancorata su vecchi schemi. Diffidava del Belpaese e constatava con amarezza che non eravamo seri.
Nella comunicazione decideva tutto in autonomia e sul fronte della guerra delle parole la sincerità, a differenza degli Stati Uniti dov’era un guru, costituiva una sconfitta clamorosa. Visitava spesso, e con passione, le fabbriche, “la sua eredità più importante: sono belle, pulite, la gente ci lavora enormemente meglio che in passato, dentro ci ha costruito delle scuole che si chiamano Academy per imparare a lavorare senza fatica”.
Sergio Marchionne: la fusione mai andata in porto con General Motors
Mai un manager italiano è stato così considerato dai presidenti degli USA, Obama e Trump. Tuttavia, lo muoveva “un’ambizione sconfinata. Voleva la fusione con GM per guidare il gruppo d’auto più grande del mondo. Ma constatò che l’establishment americano non glielo avrebbe permesso. Fu il grande investitore Warren Buffett a spiegare ad Elkann che era una mossa da non fare”. Marchionne ebbe un colpo psicologico e trasferì tutta la sua immensa forza sull’obiettivo di azzerare il debito FCA. Il capolavoro che aveva in mente non gli riuscì però mai: costituire una nuova e più potente versione della Toyota, in grado di portare l’auto nel futuro.